La seconda Guerra Mondiale
- Fronte francese giugno 1940
- Fronte greco-albanese ottobre 1940-aprile 1942
- Fronte balcanico aprile 1941-settembre 1943
- La campagna di Russia gennaio1942-marzo 1943
- Il primo corpo di spedizione italiano CSIR
- L'ambiente operativo
- Il secondo corpo di spedizione italiano ARMIR
- Savoia cavalleria: La carica di Isbuscenskij
- La ritirata delle divisioni di fanteria
- La ritirata del corpo d'armata alpino
- Le perdite
- La battaglia di Nikolajewka
- In salvo
- Il rimpatrio
- Vento dell'Est (Messaggio d'amore)
- Gli Alpini dopo l'armistizio
Fronte francese giugno 1940
La seconda guerra mondiale vide gli alpini
impegnati inizialmente sul confine francese durante la battaglia delle Alpi Occidentali del giugno 1940, dove quattro divisioni
Alpine erano schierate in zona di guerra: la Taurinense schierata sul
confine alla testa della Dora Baltea, la Tridentina in seconda linea nella stessa
vallata, con alcuni battaglioni Alpini costituiti all'atto della mobilitazione.
In riserva erano la Cuneense e la Pusteria, rispettivamente in valle
Gesso e val Tanaro. Questi
reparti furono inquadrati nel Gruppo Armate Ovest forte di 315.000 uomini lungo
tutto il confine.
Nonostante le forze
preponderanti, le unità italiane furono chiamate ad operare in condizioni
precarie e pregiudizievoli in quanto, soprattutto per gli alpini di origine
piemontese, il disagio fu acuito dalla constatazione delle ripercussioni
sociali ed economiche sulle popolazioni civili. Inoltre migliaia di truppe male
addestrate e mal equipaggiate di mezzi e armamenti si trovarono a combattere in
un terreno impervio e contro un sistema difensivo di prim'ordine attrezzato con
un complesso di oltre quattrocento opere servite da un'ottima rete ferroviaria
e stradale. Il 21 giugno arrivò l'ordine di attacco, e le divisioni Tridentina,
Cuneense e Pusteria furono spostate nei rispettivi teatri di scontro; la
Tridentina fu posta in prima linea assieme alla Taurinense con il compito di
penetrare verso Bourg-Saint-Maurice dal colle del Piccolo San Bernardo, mentre le altre due
divisioni ebbero il compito di penetrare nel settore Maira-Po-Stura. Nella
notte tra il 24 e 25 giugno, appena tre giorni dopo l'inizio delle operazioni
per le divisioni alpine, fu firmato l'Armistizio di Villa Incisa che pose fine
alle ostilità con la Francia.
Fronte greco-albanese ottobre 1940-aprile 1942
Nell'ottobre dello stesso anno le divisioni Cuneense, Tridentina, Pusteria e la Alpi Graie furono spostate sul fronte greco-albanese dove era già presente la Julia, che fu anche la prima a compiere azioni di guerra nel settore. L'invio degli alpini avvenne a causa dello sfondamento del fronte difensivo italiano sulla Vojussa. L'avanzata greca minacciava di raggiungere l'Adriatico e ricacciare oltremare le truppe italiane. Solo grazie all'afflusso di reparti di rinforzo, tra cui le tre divisioni alpine, fu possibile stabilire una posizione di resistenza in grado di reggere fino alla primavera successiva.
La Julia venne impiegata nei primi attacchi, ma la disorganizzazione dei comandi fece sì che in appena un mese di difficoltose avanzate fu costretta a ritirarsi e a difendersi dalle incursioni greche. A fine dicembre da 9.000 uomini la Julia rimase con sole 800 unità.
La campagna di Grecia fu un fallimento per l'Italia, e solo l'intervento dell'alleato tedesco nella primavera 1941 diede una svolta alle operazioni. Per assicurarsi il controllo dei Balcani in previsione dell'invasione dell'Unione Sovietica, Adolf Hitler e il suo Stato Maggiore misero a punto l'operazione Marita.
L'attacco italo-tedesco partì il 6 aprile e il 23 la Grecia chiese l'armistizio, armistizio che giunse dopo un enorme tributo di sangue per gli alpini, con 14.000 morti, 25.000 dispersi, 50.000 feriti e 12.000 congelati.
Fronte balcanico aprile 1941-settembre 1943
L'occupazione italiana del Montenegro e del Sangiaccato avvenne durante la seconda guerra mondiale nell' aprile del 1941 durante l'invasione del Regno di Jugoslavia.
Fortemente contrastata dalla popolazione e dai partigiani comunisti, provocò fin dal 13 luglio 1941 un'insurrezione generale che rischiò di travolgere il corpo d'occupazione italiano.
Con l'arrivo di grandi rinforzi, l'impiego di brutali metodi repressivi ed il concorso dei collaborazionisti cetnici, gli italiani riuscirono a riprendere in parte il controllo della situazione entro l'estate 1942, ma i partigiani di Tito ritornarono in massa in Montenegro nella primavera 1943 sconfiggendo italiani e cetnici.
Al momento dell'armistizio italiano dell'8 settembre 1943, il Montenegro era in piena ribellione e le truppe tedesche erano entrate nel territorio ufficialmente italiano per imprimere maggiore energia alla repressione.
Furono impiegati in Montenegro la divisione "Pusteria" e il 2° gruppo alpini sin dal luglio 1941. Degna di rilievo la resistenza opposta a Pljevlja da elementi della "Pusteria" all'attacco sferrato di sorpresa da circa 6.000 partigiani (1° dicembre 1941).
Alla fine dello stesso 1941 affluì in Montenegro il 1° gruppo alpini che, nel marzo 1942, col 2° gruppo e alcuni gruppi di artiglieria alpina costituì la divisione "Alpi Graje". Tutte le predette unità concorsero alle operazioni, particolarmente difficili per asperità di terreno, svoltesi sul massiccio del Durmitor e sull'altopiano di Žabljak (maggio-luglio 1942).
Nell'estate 1942 la "Pusteria" rimpatriò e fu inviata nella Francia occupata. Fu sostituita in Montenegro dalla "Taurinense", già in Croazia.
La campagna di Russia gennaio1942-marzo 1943
Hitler, dopo aver sconfitto la Francia ed aver
occupato mezza Europa, ritenne giunto il momento di attaccare l’Unione
Sovietica, ormai confinante con la Germania, dopo la spartizione della Polonia
con i russi che lui stesso aveva voluto.
Il piano, nome in codice “Barbarossa”, aveva lo
scopo di distruggere l’Armata Rossa ed il regime comunista di Stalin. Il 22
giugno del 1941 le Armate hitleriane irrompono in territorio sovietico ed
avanzano rapidamente distruggendo uno dopo l’altra, dopo averle circondate,
imponenti forze russe.
Mussolini, lusingato dalle spettacolari vittorie
iniziali tedesche, chiede di partecipare alla Campagna con una presenza
militare italiana. I Generali tedeschi sono contrari, ma Hitler accontenta
l’alleato.
Il primo corpo di spedizione italiano CSIR
Viene allestito in tutta fretta un Corpo di
Spedizione composto dalle due Divisioni di fanteria Torino e Pasubio, dalla
Divisione Celere (formata da Bersaglieri e Cavalleria) e dalla Legione Camicie
Nere Tagliamento.
Tale forza, che assume il nome di CSIR (Corpo di
Spedizione Italiano in Russia), è posta al comando del Generale Giovanni Messe
e conta 60.000 uomini, 150 cannoni, 5.500 automezzi, 4.600 quadrupedi. La
copertura aerea è assicurata da 51 caccia, 22 ricognitori e 10 bombardieri.
Lo CSIR parte dall’Italia alla fine di luglio 1941
e raggiunge in treno la
Romania. Di qui con mezzi propri passa in Bessarabia e
Botasani, base di partenza delle operazioni.
Con molte difficoltà, derivanti dalla insufficiente
ed inidonea dotazione di mezzi di trasporto, le Divisioni italiane seguono con
molta fatica l’Armata Corazzata tedesca alla quale erano aggregate. Tuttavia,
nonostante le antiquate artiglierie e la mancanza di mezzi corazzati, si
comportano valorosamente; superano i fiumi Bug e Dnjeper ed avanzano verso il
bacino minerario del Donetz.
A metà novembre 1941 conquistano gli importanti
centri di Stalino, Nikitovka, Gorlovka e Rikovo. L’inverno incombente e
l’estremo logoramento subito dai reparti italiani in questa guerra di
movimento, per la quale non sono equipaggiati, né sono stati addestrati,
obbliga lo CSIR a fermarsi sulle posizioni raggiunte e ad organizzarsi per
trascorrere un inverno che si annuncia estremamente rigido.
Il giorno di Natale i russi sferrano contro le
nostre posizioni, tenute dai bersaglieri e dalla Camicie Nere, una vigorosa
offensiva che viene però contenuta e respinta con notevoli perdite. A metà
febbraio giunge in Russia il primo reparto alpino : il Battaglione Monte
Cervino. Un mese dopo lo CSIR viene potenziato con l’invio del 6° Reggimento
Bersaglieri e del 120° Reggimento Artiglieria Motorizzata.
L'ambiente operativo
L'ambiente operativo del
Don presentava caratteristiche assolutamente diverse da quelle in cui gli
alpini erano addestrati a muoversi; una vasta pianura uniforme e priva di
rilievi montuosi, dove un esercito invasore avrebbe dovuto disporre di forze
corazzate e motorizzate per trarre beneficio da una fondamentale mobilità sul
piano tattico.
Il Corpo d'Armata alpino
invece disponeva di 4.800 muli e 1.600 automezzi che sarebbero stati largamente
insufficienti anche in spazi operativi molto più ristretti; mancava inoltre
tutto l'armamento anticarro, l'artiglieria
contraerea e i mezzi di trasmissione, costruiti per l'impiego in alta
montagna, avevano una potenza limitata e non riuscivano a stabilire i corretti
collegamenti sulle grandi distanze.
In generale tutto
l'armamento in dotazione agli alpini fu gravemente insufficiente, non furono
forniti spazzaneve, né mezzi cingolati, né slitte, né lubrificanti antigelo né
vestiario adeguato né armi automatiche in grado di resistere alle gelide
temperature sovietiche.
La destinazione del
Corpo d'Armata alpino sul Don non era nata da un piano strategico e organico,
ma dall'emergenza determinatasi su tutto il fronte sovietico
nell'estate-autunno 1942 e accentuatasi nell'inverno successivo sino alla rotta
dei reparti invasori nel dicembre-gennaio.
Gli alpini dirottati sul
Don arrivarono appena in tempo per essere schierati in prima linea, venire
accerchiati dall'avanzata dell'Armata Rossa
ed essere costretti a una ritirata tragica nella quale caddero oltre i due
terzi degli uomini.
Nell'insieme, agli
alpini spettava un settore di 70
km , per cui non fu possibile tenere una divisione di
riserva.
Il primo periodo di permanenza in linea degli alpini
fu soprattutto di "stasi operativa", senza azioni di rilievo né da
una né dall'altra parte, e gli alpini si preoccuparono di garantirsi condizioni
di sopravvivenza in vista dell'inverno con la costruzione di ricoveri,
postazioni coperte, approvvigionamento di ogni tipo di materiale, scavare
fossati anticarro, minare vaste aree e posizionare reticolati e postazioni di
tiro.
Il secondo corpo di spedizione italiano ARMIR
Mussolini, intanto, è deciso ad incrementare il
nostro impegno militare sul fronte russo, invano dissuaso del Generale Giovanni
Messe che si era reso conto della impreparazione del nostro esercito ad
affrontare una guerra di movimento in un ambiente nel quale le nostre armi, il
nostro equipaggiamento, i nostri mezzi di trasporto non erano idonei.
A partire dal giugno 1942 viene inviato in Russia
il 2° Corpo d’Armata con le Divisioni di Fanteria Cosseria, Ravenna e
Sforzesca.
Tre legioni di Camicie Nere (Montebello, Leonessa e
Valle Scrivia) sono messe a disposizione dei Comandi di Corpo d’Armata della
Fanteria. Ad agosto sono raggiunte dalle tre Divisioni Alpine Tridentina,
Cuneense e Julia e dalla Divisione di Fanteria Vicenza destinata a compiti di
occupazione.
Queste nuove Unità, insieme a quelle già presenti
in Russia, costituiscono l’ARMIR (Armata Italiana in Russia) al cui comando è
posto il Generale Italo Gariboldi. Essa ha una forza di 220.000 uomini, 988
cannoni, circa 42 mortai, 17.000 automezzi, 25.000 quadrupedi e 64 aerei.
I tedeschi riprendono l’iniziativa in questo settore
solo in luglio del 1942 e le Divisioni già in posto, unitamente alle altre
Divisioni di Fanteria arrivate da poco in Ucraina, si spostarono 300 chilometri in
avanti fino ad attestarsi sul fiume Don.
La Celere, l’unica nostra Divisione ad essere
motorizzata, venne lanciata dai tedeschi ancora più ad Est, fino a Serafimovic
con il compito di eliminare la testa di ponte che i russi avevano in quel
settore, i bersaglieri, in quell’azione, subirono notevoli perdite.
Lo schieramento imposto dai Comandi tedeschi alle
nostre truppe sul fronte del Don, era insensatamente diluito in quanto a
ciascuna delle nostre Divisioni era assegnata la difesa di circa 30 chilometri di
fronte, quando le più elementari norme strategiche ne prevedevano al massimo 6 chilometri .
La debolezza di questo schieramento fu subito messa
a dura prova, quando, alla fine di agosto, i sovietici attaccarono in forze la
Sforzesca che, dopo alcuni giorni di accanita resistenza, cedette ai russi che
si impadronirono di un’ampia testa di ponte.
L’immediato intervento della Celere (richiamata da
Serafimovic), del Battaglione Monte Cervino, del Reggimento Savoia Cavalleria e
della Tridentina (richiamata mentre stava marciando verso il Caucaso) fermarono
lo slancio dei russi.
Questo periodo operativo è chiamato “Prima
Battaglia Difensiva del Don“ e le perdite furono di 1.100 Caduti e 5.500
feriti.
Dopo alcuni spostamenti le Divisioni dell’ARMIR
assunsero il seguente schieramento a difesa del Don: Tridentina all’estrema
sinistra a contatto con l’Armata Ungherese, Julia, Cuneense, Cosseria, Ravenna,
Pasubio, Torino, Celere, Sforzesca a contatto con l’Armata Romena.
Tra la Ravenna e la Pasubio venne inserita la 298a
Divisione di Fanteria tedesca. Tutte le nostre Unità, in particolare quelle del
Corpo d’Armata Alpino, avevano provveduto alla loro sistemazione sul terreno in
modo da sopportare il lungo periodo invernale, nella convinzione che i russi
non avrebbero intrapreso nessuna iniziativa prima della primavera.
Fin dal primo giorno, i carri leggeri di cui
disponiamo ci espongono a sanguinose lezioni ma ci sono anche episodi di valore
che entreranno nella storia (e nella leggenda) come quello della carica di
Isbuscenskij compiuta dal Savoia Cavalleria il 24 agosto 1942, nel bacino del
Don e che "l’Enciclopedia Britannica" descrive ancora oggi con queste
efficacissime parole: "Forze in campo, il reggimento italiano Savoia
Cavalleria (col. Bettoni) e due battaglioni sovietici".
Savoia cavalleria: La carica di Isbuscenskij
Alle prime luci dell'alba del 24 agosto 1942 il "Savoia Cavalleria" (con un organico di 700 cavalieri), che aveva bivaccato in mezzo alla steppa, in quadrato, protetto dagli obici delle "Voloire", si preparava a riprendere la marcia verso un anonimo punto trigonometrico sulle sponde del Don, la quota 213,5 m .
Durante la notte tre battaglioni dell'812° Reggimento di fanteria siberiano (812 strelkovyj polk), composto da circa 2.500 soldati e facente parte della 304ª Divisione di fanteria (304 strelkovaja divizija) il cui comandante era Serafim Petrovič Merkulov, si erano portati a circa un chilometro dall'accampamento e si erano trincerati in buche fra i girasoli, formando un ampio semi-cerchio da nord-ovest a nord-est, attendendo l'alba per attaccare le truppe italiane.
Prima di togliere il campo, gli italiani inviarono in avanscoperta una pattuglia a cavallo comandata dal sergente Ernesto Comolli, la quale doveva controllare, in particolare, un carretto di fieno intravisto la sera precedente. Fu quasi per caso che un componente della pattuglia, il caporalmaggiore Aristide Bottini, notò un soldato appostato tra i girasoli; pensando fossero alleati tedeschi, lo chiamò e questi, girandosi verso di loro, mostrò la stella rossa sovietica sull'elmetto, svelando l'identità nemica.
Al primo colpo della pattuglia italiana sparato contro di loro dal cavaliere siciliano Petroso, che centrò il russo sotto il filo dell'elmetto, i sovietici risposero con un rabbioso fuoco di mortai e mitragliatrici, che investì il quadrato italiano.
Il tenente colonnello Giuseppe Cacciandra, vice comandante del reggimento, venne ferito ad una gamba, e così il capitano Renzo Aragone, colpito ad un ginocchio, mentre il colonnello comandante, Alessandro Bettoni Cazzago, ebbe il cappotto forato da un proiettile.
Nel quadrato vi fu un attimo di sconcerto, ma gli italiani si ripresero rapidamente. Gli obici delle batterie a cavallo, comandati dal tenente Giubilaro, risposero subito al fuoco, e la pronta reazione spinse i sovietici ad arretrare il loro schieramento, troppo vicino alle linee italiane.
Accortosi della manovra sovietica, il comandante del "Savoia" colonnello Bettoni Cazzago ordinò quindi al 2°squadrone, comandato dal capitano Francesco Saverio De Leone, di caricare a fondo i sovietici sul fianco; in realtà, secondo le testimonianze, sembra che il colonnello in un primo momento volesse caricare con tutto il reggimento, con lo stendardo al vento, ma fu convinto dal proprio aiutante maggiore Pietro de Vito Piscicelli di Collesano a dosare le forze in ragione dell'evolversi della situazione.
Il 2° squadrone, dopo aver effettuato un'ampia conversione, caricò a ranghi serrati e sciabole sguainate il nemico, lanciando anche raffiche di mitragliatrice e bombe a mano: i sovietici, completamente colti di sorpresa, vennero scompaginati e ripiegarono in disordine.
Rimasto isolato dietro la linea nemica, il 2° squadrone compì quindi una seconda carica per rientrare nelle sue linee, aumentando così la confusione nello schieramento sovietico.
In quel momento il comandante del reggimento fece appiedare il 4° squadrone, comandato dal capitano Silvano Abba, e lo inviò a impegnare frontalmente il nemico, per alleggerire la pressione sul 2° squadrone montato.
La manovra ebbe momentaneo successo, sebbene il capitano Silvano Abba venisse colpito e ucciso da una raffica di mitra mentre dirigeva l'azione (per la quale fu poi insignito della medaglia d'oro al valor militare alla memoria).
Sebbene i sovietici fossero, in buona parte, quasi allo sbando, alcuni nuclei reggevano ancora l'impeto delle due cariche (in andata e in ritorno) del 2° squadrone e dell'assalto appiedato italiani, provocando sensibili perdite fra le file dei cavalieri italiani.
Il maggiore Dario Manusardi, che si era unito al 2° squadrone durante la prima carica (avendolo comandato fino a pochi giorni prima, essendo recente la sua promozione al grado superiore), si presentò al comandante di Reggimento colonnello Bettoni Cazzago sollecitando l'invio di un altro squadrone montato.
Il colonnello Bettoni ordinò quindi la carica anche al 3° squadrone, comandato dal capitano Francesco Marchio, che era seguito dal comandante del 2° gruppo squadroni, il maggiore Alberto Litta Modignani, e dal personale del suo comando.
Litta Modignani rimase ucciso nella carica, insieme al suo aiutante maggiore sottotenente Emilio Ragazzi: entrambi furono poi decorati di Medaglia al valor militare. La carica spezzò definitivamente la resistenza dei sovietici, che si ritirarono in disordine.
Verso le 9:30 il combattimento aveva praticamente termine. Le perdite degli italiani furono contenute, da un punto di vista militare: 32 cavalieri morti (dei quali 3 ufficiali) e 52 feriti (dei quali 5 ufficiali), un centinaio di cavalli fuori combattimento.
I sovietici lasciano sul campo 150 morti e circa 600 prigionieri, oltre ad una cospicua mole di armi (4 cannoncini, 10 mortai e una cinquantina tra mitragliatrici ed armi automatiche).
La cavalleria aveva scritto la sua ultima pagina di gloria nello stile degli antichi. Molti degli ufficiali più valorosi erano caduti morti fra i girasoli con i loro fedeli cavalli. Ma il Savoia aveva vinto.
La ritirata delle divisioni di fanteria
Mentre i tedeschi, fin dall’agosto, stavano
strenuamente combattendo per la conquista di Stalingrado, senza riuscire ad
occuparla completamente, i russi preparavano la contromossa che avrebbe portato
all’accerchiamento dell’Armata di von Paulus che assediava la città.
Il 15 novembre con una violentissima offensiva
rompevano il fronte dell’Armata Romena, schierata a fianco dei tedeschi e
tagliavano fuori da ogni rifornimento terrestre gli assedianti di Stalingrado.
Imbaldanziti da questo successo, i russi
prepararono una seconda offensiva questa volta contro le nostre Divisioni
Cosseria e Ravenna, in modo da tagliare in due il fronte dell’ARMIR.
Il 15 dicembre, con un potenziale d’urto sei volte
superiore a quello delle nostre Divisioni (basti pensare che impiegarono 750
carri armati e noi non avevamo ne carri, ne efficienti armi controcarro)
dilagarono nelle retrovie accerchiando le Divisioni Pasubio, Torino, Celere e
Sforzesca schierate più ad Est.
Esse dovettero sganciarsi alle posizioni sul Don,
iniziando quella terribile ritirata che, su un terreno ormai completamente in
mano al nemico, le avrebbe in gran parte annientate con una perdita di 55.000
uomini tra Caduti e prigionieri.
La ritirata del corpo d'armata alpino
Dall'autunno 1942 il Corpo d'Armata Alpino,
costituito dalle tre Divisioni alpine Cuneense, Tridentina e Julia, era schierato
sul fronte del fiume Don, affiancato da altre Divisioni di fanteria italiane,
da reparti tedeschi e degli altri alleati, rumeni e ungheresi.
Il 13 gennaio i Russi partirono per la terza fase
della loro grande offensiva invernale e, senza spezzare il fronte tenuto dagli
alpini, ma infrangendo contemporaneamente quello degli Ungheresi a Nord e
quello dei Tedeschi a Sud, con una manovra a tenaglia, riuscirono a racchiudere
il Corpo d'Armata Alpino in una vasta e profonda sacca.
Mentre le Divisioni della Fanteria si stanno
ritirando, il Corpo d’Armata Alpino riceve l’ordine di rimanere sulle posizioni
a difesa del Don per non essere a sua volta circondato.
A difesa del suo fianco destro, ormai completamente
scoperto, viene spostata la
Divisione Julia , il cui posto fra la Tridentina e la Cuneense
viene preso dalla Divisione Vicenza. Per un intero mese la Divisione Julia ,
con immenso sacrificio, resiste ai martellanti attacchi sovietici.
Il 15 gennaio i russi partono per la terza fase
della loro grande offensiva invernale e, senza spezzare il fronte tenuto dagli
alpini, ma infrangendo contemporaneamente quello degli ungheresi a Nord e
quello dei tedeschi a Sud. li chiudono in una tenaglia.
Davanti alla possibile catastrofe rimaneva un'unica
alternativa: il ripiegamento immediato. La sera del 17 gennaio 1943, su ordine
del generale Gabriele Nasci, ebbe inizio il ripiegamento dell'intero Corpo
d'Armata Alpino di cui la sola Divisione Tridentina era ancora efficiente,
quasi intatta in uomini, armi e materiali.
Inizia così la disastrosa ritirata su un terreno
ormai completamente in mano ai russi, in cui le Divisioni Alpine devono
conquistarsi con duri combattimenti ogni chilometro verso la salvezza. Solo una
parte della Tridentina e piccoli reparti di altre Divisioni, appoggiati dai
resti del Corpo Corazzato tedesco, riuscirà il 26 gennaio a sfondare l’ultimo
sbarramento russo a Nikolajewka mentre la Cuneense, la Julia e la Vicenza
saranno praticamente distrutte a Valuiki dopo 100 chilometri di
ritirata. In questa terza fase altri 40.000 uomini tra il Corpo d’Armata Alpino
e personale direttamente dipendente dall’Armata rimarranno nella steppa.
La marcia del Corpo d'Armata Alpino verso la
salvezza fu un evento drammatico, doloroso ed allucinante, costellato da innumerevoli
episodi di valore, di grande solidarietà, in cui circa 40.000 uomini si
batterono disperatamente, senza sosta, per 15 interminabili giorni e per 200 chilometri .
Le perdite
Le perdite complessive
del corpo d'armata alpino (divisioni alpine Julia, Cuneense e Tridentina e
Divisione fanteria Vicenza) nella tragica battaglia superarono l'80% degli
effettivi schierati sul fronte del Don. Su una forza iniziale di circa 63.000
uomini si contarono 1.290 ufficiali e 39.720 soldati caduti o dispersi, 420 ufficiali
e 9.910 soldati feriti, per un totale di 51.340 perdite.
Anche i generali Umberto
Ricagno (comandante della Julia), Emilio Battisti (comandante della
Cuneense) ed Etvoldo Pascolini (comandante della Vicenza) caddero prigionieri.
Assai più efficace della
storiografia, la letteratura ha consegnato i fatti accaduti in Unione Sovietica
alla memoria futura con libri come "Centomila gavette di ghiaccio" e
"Nikolajewka:
c'ero anch'io" di Giulio Bedeschi (ufficiale medico),
"Il sergente nella neve"
di Mario Rigoni Stern, "Mai
tardi", "La guerra
dei poveri" e "La
strada del Davai" di Nuto Revelli
e "I più non ritornano" di Eugenio Corti;
tutti autori che parteciparono alla ritirata.
La battaglia di Nikolajewka
Fu così che dopo 200 chilometri di
ripiegamento a piedi e con pochi muli e slitte, sempre aspramente contrastati dai
reparti nemici e dai partigiani sovietici, il mattino del 26 gennaio 1943 gli
alpini della Tridentina, alla testa di una colonna di 40.000 uomini quasi tutti
disarmati e in parte congelati, giunsero davanti a Nikolajewka.
Forti del tradizionale spirito di corpo gli alpini
del generale Reverberi, dopo una giornata di lotta, espugnarono a colpi di
fucile e bombe a mano il paese annientando gli agguerriti difensori annidati
nelle case.
Per dare il colpo mortale al nemico in ritirata, i
Russi si erano trincerati fra le case del paese che sorge su una modesta
collinetta, protetti da un terrapieno della ferrovia che correva pressoché
attorno all'abitato e che costituiva un'ottima protezione per il nemico.
Le forze sovietiche che sbarravano il passo agli
alpini ammontavano a circa una divisione. Verso le ore 9.30 venne ordinato di
attaccare. In un primo tempo si lanciarono all'assalto gli alpini superstiti
del Verona, del Val Chiese, del Vestone e del II° Battaglione misto genio della
Tridentina, appoggiati dal fuoco del gruppo artiglieria Bergamo e da tre
semoventi tedeschi.
La ferrovia, dopo sanguinosi scontri, fu raggiunta;
in più punti gli alpini riuscirono a salire la contro scarpata ed a raggiungere
le prime isbe dell'abitato dove sistemarono immediatamente le mitragliatrici,
ma le perdite furono gravissime per il violento fuoco dei Russi.
Nonostante le sanguinose perdite, gli alpini
continuarono a combattere con accanimento. Fu un susseguirsi di assalti e
contrassalti portati di casa in casa, venne conquistata la stazione ferroviaria
e un plotone del Val Chiese riuscì ad arrivare alla chiesa.
La reazione russa fu violentissima, gli alpini
furono costretti ad arretrare e ad abbarbicarsi al terreno in attesa di
rinforzi.
Verso mezzogiorno giunsero in rinforzo i resti del
battaglione Edolo, del Morbegno e del Tirano, i gruppi di artiglieria Vicenza e
Val Camonica ed altre modeste aliquote di reparti della Julia col Battaglione
L'Aquila, anch'essi vennero inviati nel cuore della battaglia.
Il nemico, appoggiato anche dagli aerei che
mitragliavano a bassa quota, opponeva una strenua resistenza. Sul campanile
della chiesa c'era una mitragliatrice che faceva strage di alpini.
La neve era tinta di rosso, su di essa giacevano
senza vita migliaia di alpini e moltissimi feriti. Nonostante gli innumerevoli
atti di valore personale di ufficiali, sottufficiali e soldati, spinti sino al
cosciente sacrificio della propria vita, la resistenza era ancora attivissima e
l'esito della battaglia era non del tutto scontato.
La situazione si faceva sempre più tragica perché
il sole incominciava a scendere sull'orizzonte ed era evidente che una
permanenza all'addiaccio nelle ore notturne, con temperature di 30-35 gradi
sotto lo zero, avrebbe significato per tutti l'assideramento e la morte.
Quando ormai stavano calando le prime ombre della
sera e sembrava che non ci fosse più niente da fare per rompere
l'accerchiamento, il generale Reverberi, comandante della Tridentina, saliva su
un semovente tedesco e, incurante della violenta reazione nemica, al grido di
"Tridentina avanti!" trascinava i suoi alpini all'assalto.
Il grido rimbalzò di schiera in schiera, passò
sulle labbra da un alpino all'altro, scosse la massa enorme degli sbandati che,
come una valanga, assieme ai combattenti ancora validi, si lanciarono urlando
verso il sottopassaggio e la scarpata della ferrovia e la superarono
travolgendo la linea di resistenza sovietica.
I russi sorpresi dalla rapidità dell'azione
dovettero ripiegare abbandonando sul terreno i loro caduti, le armi ed i
materiali.
Il prezzo pagato dagli alpini fu enorme: dopo la
battaglia rimasero sul terreno migliaia di caduti. Tutti gli alpini, senza
distinzione di grado e di origine, diedero un esempio di coraggio, di spirito
di sacrificio e di alto senso del dovere.
In salvo
Dopo Nikolajewka la marcia degli alpini proseguì
fino a Bolscke Troskoye e Awilowka, dove giunsero il 30 gennaio e furono
finalmente in salvo, potendo alloggiare e ricevere i primi aiuti.
Il 31 con il passaggio delle consegne ai Tedeschi
termina ogni attività operativa sul fronte russo. Fino al 2 febbraio
continuarono ad arrivare i resti dei reparti in ritirata.
I feriti gravi vennero avviati ai vari ospedali,
poi a Schebekino alcuni furono caricati su un treno ospedale per il rimpatrio.
La colonna della Tridentina riprese la marcia il 2
febbraio per giungere a Gomel il 1° marzo. Gli alpini percorsero a piedi 700 km e solamente alcuni,
nell'ultimo tratto, poterono usufruire del trasporto in ferrovia.
Il rimpatrio
Il 6 marzo 1943 cominciarono a partire da Gomel le
tradotte che riportavano in Italia i superstiti del Corpo d'Armata Alpino; il
giorno 15 partì l'ultimo convoglio e il 24 tutti furono in Patria.
Mentre per il trasporto in Russia del Corpo
d'Armata Alpino erano stati necessari 200 treni, per il ritorno ne bastarono
17. Sono cifre eloquenti, ma ancor più lo sono quelle dei superstiti,
considerando che ciascuna divisione era costituita da circa 16.000 uomini, i
superstiti risultarono 6.400 della Tridentina, 3.300 della Julia e 1.300 della Cuneense.
Dopo
la terribile ritirata, in cui gli Alpini persero circa 50.000 uomini, l’Alto
comando sovietico ammise in un bollettino: "Solamente il Corpo d’Armata Alpino italiano può considerarsi
imbattuto in terra di Russia".
VENTO DELL'EST
(messaggio d'amore)
Vento che dalle lontane steppe di Russia
con mille e più voci urlanti,
discendi sul bel mare d’Italia
come dolce brezza ti distendi.
Vento dell’Est, oggi porti
un Messagio d’Amore e di Pace,
non più di Guerra, dettate ed affidate
dai nostri soldati che da tempo immemore
giacciono in quelle lontane terre.
Voi che avete perduta una cara persona,
ascoltate tra quelle mille voci la sua voce
che il vostro cuore saprà discernere,
un volto caro partito per la guerra
e mai più ritornato.
Ora il vento dell’Est comprende
il vostro dolore, il vostro dramma.
Chiede perdono ed un sorriso accarezzando
con il suo alito il vostro dolce e mesto viso.
Il Vento dell’Est ora parla in lingua Russo-Ucraina
e dice: "Italianski, dobre, carasciò" e poi,
in perfetto dialetto meneghino-milanese, aggiunge
"Voremes semper ben, bella Italia, dasvidania!"
Antonio Valentini classe 1911, reduce di Russia
Gli Alpini dopo l'armistizio
Con la proclamazione dell'armistizio
avvenuta l'8 settembre 1943 la storia degli alpini si frazionò.
La maggior parte degli
uomini si unirono ai gruppi partigiani a nord o ai reparti Alleati che risalivano la
penisola, altri entrarono a far parte della neonata Repubblica Sociale Italiana (RSI), mentre
i meno fortunati finirono imprigionati nei campi sovietici o tedeschi.
Nella RSI fu costituita
la "4ª Divisione Alpina Monterosa" cui si aggiunsero altre unità
Alpine inquadrate nella "Divisione Littorio" e
il battaglione guastatori "Valanga" della Decima Mas.
Chi invece decise di
combattere a fianco degli Alleati e della resistenza operò in tutto il sud e in
particolare nell'Abruzzo.
Venne formata la 6ª Divisione alpina "Alpi Graje", che si scontrò
duramente con i tedeschi sull'Appennino nei primi giorni successivi
all'armistizio, il battaglione
alpini "L'Aquila" che con gli Alleati risalì tutta la
penisola fino alla vittoria, mentre i reduci dall'Unione Sovietica della
Cuneense e Tridentina dettero vita a formazioni partigiane in Alto Adige.
Le uniche unità Alpine organizzate di cui si
poterono seguire le vicende furono quelle inquadrate nell'esercito Alleato
impegnato nella guerra di
liberazione, come il battaglione
"Piemonte", dapprima in organico al Primo
Raggruppamento Motorizzato, che nell'aprile 1944 fu assorbito dal 3° Reggimento alpini
e inquadrato nel costituendo Corpo Italiano di
Liberazione (CIL).
Il battaglione fu quindi impiegato nel settore
adriatico sino all'agosto 1944, quando il CIL, giunto a contatto con la Linea Gotica fu sciolto per essere sostituito
con i Gruppi di
Combattimento.
Il battaglione Piemonte entrò a far parte del gruppo di
combattimento "Legnano" assieme al battaglione
L'Aquila partecipando agli scontri nella val dell'Idice e all'inseguimento dei
tedeschi fino a Bergamo e Torino.
Il battaglione alpini "Monte Granero",
assorbito assieme al Piemonte nel 3° Reggimento, nel settembre 1944 fu inviato
in Sicilia in servizio di ordine pubblico.